Le farfalle e gli imbuti rotti
Nel 1898 uno dei padri della pubblicità, St. Elmo Lewis, sviluppa AIDA, un modello per descrivere il viaggio del consumatore verso l’acquisto di un prodotto o un servizio: Awareness, Interest, Desire e Action, questi sono i passi del consumatore. Su questi elementi sono state elaborate strategie, progetti e soprattutto delle metriche: l’importanza delle visualizzazioni su un sito, un giornale, in tv si basano sull’assunto che dall’Awareness discendono gli altri step. Il purchase funnel e il modello AIDA si basano su un assunto: le persone, i consumatori sono razionali. E se non fosse così? E se le nostre scelte fossero istintive?
Un errore microscopico all’inizio di una serie di complesse operazioni matematiche può portare a errori giganteschi nelle conclusioni: da questo punto di vista usare come punto di partenza un consumatore razionale e logico rappresenta il nostro effetto farfalla. Se dovessimo dare una rappresentazione più veritiera del consumatore non avremmo una persona la cui decisioni non sono totalmente istintive o totalmente logiche, ma ritroveremmo in qualche modo un valore simile al Principio di Pareto: nel fare una scelta 80% è istinto e 20% è razionalità, ma questo dipende molto dall’ambiente nel quale viviamo oggi.
Il nostro adattamento evolutivo “razionale” non è fatto per interagire con un ambiente così ricco di stimoli e informazioni: siamo infatti in grado di processare un numero relativamente basso di informazioni in maniera cosciente. Ovviamente questa soluzione si è rivelata ottimale in un’ambiente “povero”, ma cosa succede quando questo ambiente cambia e diventa infinitamente complesso? Molto semplicemente la parte razionale non è in grado di affrontare, considerare ed elaborare tutti i dati e i nostri processi decisionali vengono presi sempre più dalla parte istintiva.
L’esempio più semplice di questo fattore è quello che succede durante l’acquisto di un qualsiasi prodotto. Facciamo l’esempio di una persona che deve comprare del succo di frutta in un supermercato: quante confezioni ci sono? quante Marche ci sono? Quanti gusti ci sono? Troppe. Per fare una scelta “razionale” dovremmo leggere tutte le etichette, confrontare i nutrienti, fare una valutazione qualità/prezzo per ciascuno e solo dopo scegliere quello giusto. Avendo però circa 20 secondi per decidere prima di passare allo scaffale dei biscotti prenderemo quello arancione con tanta frutta (che sembra tanto genuino) ed è in promozione. Un ulteriore esempio è quello dei campioni di marmellate 1: davanti a un esposizione di gusti ricchissima si fermano tanti ma comprano in pochi, se le opzioni sono inferiori si fermano meno persone ma comprano di più 2
Prendiamo la navigazione online e la scelta dei prodotti o dei risultati di Google: perché non controlliamo tutto? Quando ci fermiamo? Abbiamo davvero trovato l’informazione utile? Niente accade per caso. Molte volte decidiamo di leggere quello che conferma le nostre ipotesi 3 altre volte in un momento apparentemente casuale: molto semplicemente il nostro istinto e sa quando non è più il caso di cercare. A spiegare questo e identificare il rapporto tra ricchezza dell’ambiente e tempo speso, sono le teorie dell’information foraging: molto semplicemente gli informivori ottimizzano il rapporto tra tempo e informazioni utili all’interno di un determinato ambiente.
L’aspetto ambientale è quindi fondamentale per comprendere perché il modello AIDA non possa essere comunque applicato oggi: un modello del 1989, anche se basato su teorie ingenue, forse avrebbe avuto senso solo in quel determinato periodo, in un ambiente informativo scarso, ma oggi, nel mondo dell’information overflow dove le persone usano prevalentemente l’istinto diventa un modello difficilmente applicabile per spiegare il processo d’acquisto. Se prendiamo gli over 20 (il discorso cambia leggermente per fasce d’età inferiori) vediamo che il percorso lineare è una semplice illusione: il fatto di essere esposti a un messaggio non attiva interest e desire, anzi, di solito abbiamo awareness come conseguenza di un interest generato da un desire (facilmente generato artificialmente prima dei 12 anni). A questo punto anche la misura della semplice awareness diventa poco utile 4.
Come abbiamo detto inizialmente molte delle metriche che oggi vengono usate come indicatori chiave nascono per essere applicate al modello AIDA: il numero di soggetti esposti come elemento per valutare le performance ad esempio. Quante volte capita che si senta “Ma quante persone hanno visto il nostro update?””quel Blog, quante visualizzazioni fa?”: il numero grezzo è assolutamente inutile (oltre che incalcolabile: moltiplicando i valori di alcuni d20 si possono ottenere valori altrettanto affidabili). Se però il modello si rivela poco applicabile 5smettere di usarlo, per lo meno la parte di awareness assoluta, potrebbe rivelarsi la scelta giusta, soprattutto per l’online.
Il tutto deve essere ripensato dalla fine: che cosa scatena l’acquisto? Cosa persuade una persona? Chi eventualmente lo influenza? Per creare qualcosa diverso (e di conseguenza trovare nuove metriche) che renda conto della realtà e tenga conto della sua complessità bisogna accettare che non esiste un unico modello che renda conto in maniera completa del percorso d’acquisto 6. Diventa quindi necessario creare non uno ma diversi modelli: sicuramente uno per gli acquisti l’online e uno per quelli offline e svilupparne due versioni (over20 e under20). Se dovessi iniziare a tratteggiare una risposta (solo per gli over20 online) direi che l’action (intesa come acquisto) è un passo che consegue dall’engagement (inteso come attenzione) che è dipendente dall’interest (da un punto di vista biologico interagiamo solo con le cose che sono di nostro interesse, online, tramite i vari filtri e i meccanismi di creazione dei gruppi, questo comportamento si rinforza ulteriormente) e che viene influenzata da diversi fattori a seconda del singolo soggetto (sugli elementi dell’influenza e della persuasione ci sono delle costanti che possono essere sfruttate, ma nell’adulto è molto difficile modificare le convinzioni radicate sui prodotti). Sulle altre devo ancora riflettere (soprattutto sulle under20, un tema molto delicato) ma alla fine, più che un imbuto ci troviamo davanti a un rizoma del quale possiamo stimolare determinati percorsi a scapito di altri.
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Note:
- lo studio di Gigerenzer citato nel post precedente e presente anche nel testo di Lugli ↩
- questa regola è ben conosciuta anche nel campo dell’usabilità quando si progettano i menù di navigazione e gli elementi non devono essere più di sette The Magical Number Seven, Plus or Minus Two: Some Limits on Our Capacity for Processing Information ↩
- il principio di coerenza fa in modo che venga zittita la dissonanza cognitiva ↩
- da questo punto di vista parte della crisi pubblicitaria che vive il mondo dell’editoria è legato a questo fatto: dovendo valutare i risultati e vedendo che l’awareness non genera i risultati attesi si spostano gli investimenti su mezzi più redditizi ↩
- ormai di questo problema se ne parla da parecchio, recentemente anche su HBR e altre pubblicazioni ↩
- o meglio, anche se esistesse sarebbe talmente generale da non poter essere utilizzato per comprendere i fenomeni in corso e di conseguenza sviluppare strategie ↩
uno dei criteri che possono motivare l'acquisto è anche la fiducia nel prodotto (lo conosco già, mi sono trovato bene quindi lo ricompro nonostante ci sia un altro in promozione o con packaging più accattivante). Se mi confermi ciò, la base biologica che potrei azzardare è: gli animali hanno memoria dei cibi pericolosi, quindi, per quanto opportunisti siano, quando fiutano qualcosa di buono, conserveranno quella scelta per evitare cibi velenosi. Gli antenati raccoglitori facevano lo stesso scegliendo bacche commestibili e scartando quelle nocive (un esperienza precedente positiva o negativa motiva la scelta).
Assolutamente sì: l'esperienza è uno degli elementi più importanti da questo punto di vista (anche perché alla fine è basato sempre sul sistema di apprendimento quindi prove ed errori e sistema dopaminergico). L'unico momento in cui l'esperienza non è sufficiente è quando subentra la mente razionale: in alcuni momenti infatti la parte cosciente vuole essere sicura che l'istinto ha fatto la scelta migliore e a quel punto prova qualcosa di nuovo. Se il nuovo prodotto è percepito come inferiore questo conferma fortemente l'esperienza sul prodotto vecchio (quindi diventa molto più difficile che in futuro si rifaccia un controllo e si sia meno "fedeli"), se il nuovo prodotto è percepito come migliore inizia il dubbio e la fase esplorativa che finisce quando si trova la nuova miglior scelta.
Io avevo imparato che la prima A di AIDA stesse per Attention e se la prendi così poi secondo me il modello continua a reggere. Necessariamente prima devi attirare l'attenzione sul prodotto (ad es. nuovo distributore promozionale all'inizio corsia al supermercato), il che risveglia l'interesse per la novità e incuriosisce, poi se vogliamo qui si inserisce la consapevolezza (awareness) legata alla comprensione di cosa c'è di nuovo, che prodotto viene proposto e così via. Con l'acquisizione delle informazioni nasce il desiderio di comprare e poi viene l'acquisto vero e proprio. Certi passaggi nel modello sono più difficili di altri: è molto più facile attirare l'attenzione che stimolare il desiderio di acquisto, ma penso che il modello di base si applicabile in ogni singolo caso ancora oggi. Quello che è cambiato negli anni è come assicurarsi che il consumatore percorra con successo tutti e quattro di passaggi.
Indipendentemente da awareness o attention (che può cambiare leggermente) il passo fallace è considerare il consumatore razionale e che l'acquisizione di informazioni (consapevolezza) conduca al desiderio e conseguentemente all'acquisto: sfortunatamente nessuno usa le informazioni a sua disposizione per fare una decisione logica e completa 😉
@Piero: "il consumatore" non e' un agente omogeneo. Consumatori diversi seguono strategie di acquisto differenti e partono da credenze/conoscenze diverse. Sulle tipologie poi ci si puo' sbizzarrire, ma escludere che un segmento di consumatori segua una strategia razionale di acquisto mi sembra scorretto.
Io quando considero di usare l'AIDA non ci penso proprio che dall'altra parte ci sia una persona razionale 🙂 L'importante è che voglia il prodotto e che poi lo compri. Se è affascinato dal design o dal fatto che ce l'hanno tutti, quello che conta è metterglielo davanti agli occhi, spiegargli che lo vuole, faglielo desiderare e farlo acquistare.
In genere si pensa che nel marketing B2B si debba considerare che gli acquirenti siano più razionali che nel B2C, ma sto giusto seguendo adesso un corso e in apertura ci hanno detto che se anche forse è vero che le aziende sono un più razionali dei consumatori, si tratta comunque di persone che prendono le decisioni di acquisto, e c'è sempre una significativa componente irrazionale nelle decisioni di acquisto.
In generale credo che nessuno più dei markettari sia più cosciente dell'irrazionalità dei clienti. Chi invece costruisce (costruiva modelli basati sulla razionalità) sono gli economisti classici, ma penso che da Kahnemann in poi le loro fila si riducano in continuazione (nonostante si continui ad insegnare modelli basati sulla razionalità in certi corsi).
Prendi ad esempio http://popai.com/2012/05/09/76-purchase-decisions-made-in-store/ o tutti gli studi sul behavioural economics: la razionalità è una teoria ingenua basata sulla non conoscenza dei processi decisionali reali dei consumatori. Le grandi aziende (soprattutto USA) adesso sfruttano notevolmente queste conoscenze sfruttando meccanismi basati sull'istinto e non sulla parte "razionale" (che poi non razionale non significa necessariamente privo di logica :D) Alle persone piace profondamente credere di essere razionali
Piero, concordo con te, ma forse ho fatto confusione su un aspetto. Per razionalita' non intendo un modello decisionale di scelta ottima.
Un cliente che decide di prendere un succo d'arancia perche' si trova ad un livello dello scaffale fisicamente piu' accessibile non compie una scelta "irrazionale".
Decide che la fatica di piegarsi vale meno del verificare altre possibili opzioni. Dato il suo desidero di succo d'arancia e le sue aspettative sulla possibilita' di trovare qualcosa di meglio piu' in basso. Questo lo considerei un modello di scelta orientato al "soddisfacimento" difficilmente etichettabile come irrazionale.
Ok, diciamo che io uso "razionale" come una scelta che viene fatta consapevolmente dal consumatore che tiene conto di tutte le informazioni. Per me il comportamento che hai descritto è logico (mi sa che è un problema terminologico)
@Daniel&Piero: concentrarsi sulla "ingenuita'" dei modelli di consumer choice tradizionali e' un po' uno straw man, dal mio punto di vista.
Quando pensiamo ad U(p,q,x), dentro x c'e' spazio piu' o meno per tutto. Per questo il modello di consumer choice tradizionale si e' rivelato flessibile nel tempo, si puo' integrare ed estendere prendendo in considerazione caratteristiche diverse (del prodotto, del consumatore, dell'ambiente…).
Dato che vengono usati e presi per validi come modelli di riferimento "assoluti" e applicabili in tutte le situazioni non è così assurdo: il problema del modello è di fondazione. In realtà il modello dice che U(pa, qa, xa) dove a=consumatore razionale e che ottimizza: è questo che bisogna cambiare. Se si passa a U(xN, yN, zN) dove N=comportamento non ottimale ma logico allora sono d'accordo. Tuttavia hai alcune caratteristiche comuni più legate però non tanto alle informazioni in possesso al consumatore ma sui modelli di comportamento e scelta "naturale" (o biologico) e alcuni elementi specifici locali che dipendono da ambiente (che quindi interessa anche cultura e spazio fisico): a quel punto un modello generale diventa, a mio avviso, poco utile perché non applicabile a tutto 🙂
Ti potrebbe interessare il lavoro di Gerd Gigerenzer http://goo.gl/8OPwc
adoro Gigerenzer: i suoi studi sui processi decisionali nei punti vendita sono straordinari (soprattutto sull'effetto della sovrabbondanza informativa e il tasso d'acquisto)
E il concetto di bounded rationality è affascinante (grazie per il link: quello mi mancava)